ESCLUSIVA - da Bari allo Sziget, l'Indietronica di Makai
La settimana scorsa siamo stati in uno studio discografico di Bari, dove abbiamo incontrato una delle sorprese più frizzanti del panorama musicale italiano. Stiamo parlando di Dario Tatoli, in arte Makai, reduce da un lungo tour dopo il rilascio del suo primo EP. In questa corposa intervista, l’artista si è aperto con noi a 360°, dandoci l’opportunità di capire e approfondire meglio tutte le sfumature della sua musica e lasciandoci tante aspettative per il suo sicuramente roseo futuro.
Ciao Dario, benvenuto. Per iniziare, parlaci un po’ di te: cosa fai nella vita oltre la musica, cos’è Makai e come nasce?
Nella vita mi occupo da tanto tempo di suoni: il mio mestiere è il sound designer, lavoro come producer in studio e faccio anche l’insegnante di musica elettronica. Makai è un progetto nato non troppo tempo fa; avevo dei brani, una quantità abbastanza ampia, ma ce n’erano cinque in particolare che racchiudevano un periodo che avevo voglia di mettere nero su bianco. Da lì è nato “Hands”, l’EP. Definirmi in un genere musicale? Non sono un grandissimo amante delle autodefinizioni, preferisco che la mia musica venga definita da altri. Penso sia evidente che abbia un background legato alla musica elettronica, ma anche al cantautorato di un certo tipo, quello brasiliano, sud americano. La verità è che è stato un potpourri e non saprei dire se è “quello” il mio genere; senza dubbio in quell’EP sono presenti sensazioni ricorrenti.
Approfondiamo un po’ di più “Hands”: come hai detto sono cinque tracce, da cui hai estratto anche un singolo, la titletrack “Hands”. Come ti leghi a questo EP?
Avevo quest’immagine fissa nei suoni, un paesaggio molto crepuscolare, con scarsa visibilità. Un mare con un nebbione, una vista tetra. La descrizione di una sorta di naufragio. Avevo questa immagine e volevo descriverla: dei suoni distanti, molto ampi. Era un periodo della mia vita abbastanza incerto, sottotono rispetto a quello che vorrei fosse il mio futuro. I brani a cui sono più legato sono “Hands” e “Missed”. Il primo perché ha delle ritmiche molto interessanti, mi piacciono molto le percussioni. Missed perché mi ricorda delle atmosfere più veloci, più dance floor.
Col tour di Hands hai girato un po’ tutta l’Italia e anche oltre: sei stato a Milano, a Budapest, calcando palchi importanti. Quali sono le tue sensazioni al riguardo?
Ero già stato in tour in passato, ma con una band e ovviamente l’esperienza è stata ben diversa portando in giro la mia musica. Credo che quelle che hai nominato siano state le date più belle. Ho notato con piacere il fatto che ci potesse essere attenzione in Italia anche per musica “altra”. Io preferisco lo studio al live, forse perché sono un animale da studio (ride, n.d.r.). Ma è stato comunque un tour fantastico, davvero.
Ti faccio una domanda un po’ sciocca ma molto significativa: nella tua playlist c’è Hands?
No, no (ride, n.d.r.). Ovviamente non mi ci riconosco quasi più, per quanto ci sono dei brani che vorrei ritrattare. Ma in realtà è raro che ascolti la mia musica, se non nell’ambito della produzione.
Quanto è difficile fare musica e avere successo in Italia?
L’osservazione è da farsi alla base: qual è il significato di successo? Se inteso in termini economici, non è semplicissimo qui farlo con questa musica. Quelli che si chiamano “soldi veri” sono legati ad un altro tipo di mercato e un altro tipo di utenza. Vivere di musica è possibile, farci i soldi è già più complicato. Già il solo fatto di cantare in inglese ti colloca in un ambiente più di nicchia.
E tu perché hai deciso di cantare in inglese?
Ho un rapporto con la mia voce abbastanza particolare, in alcuni casi l’avrei anche esclusa. I miei suoni in italiano sento quasi non mi appartengano. Apprezzo delle cose della musica italiana, ma non convivono con me. È stata una questione del tutto naturale, ho cominciato a farlo in inglese e credo farò sempre così.
Parliamo del prossimo disco. A che punto sei e cosa dobbiamo aspettarci di diverso da Hands?
La scrittura l’ho terminata. È stato molto difficile, come ti dicevo non mi piace autocommentare la mia musica. Per ora lo sto registrando, è la parte migliore perché viene tutto a fuoco. Uscirà presto, in realtà so la data ma non voglio sbilanciarmi.
Ho provinato quattordici brani, ma quasi sicuramente gli darò una scrematura. Vorrei anche rivedere due tracce di Hands, ma sto ancora valutando l’idea. Credo si noterà maggiormente il mio background elettronico. L’elettronica sarà un elemento più importante, con un lavoro di produzione differente. La realtà è che non mi sono messo lì dicendo “bene, ora scrivo un disco nuovo”. Io faccio una serie di brani ed in base al periodo della mia vita li rimpasto. Il nuovo disco si chiamerà “The Comfort Zone”, sarà un invito ad uscire dalla propria comfort zone. Quasi un urlo d’odio verso di essa, ma anche un modo per descriverla.
Cos’è per te la Comfort Zone?
Il primo posto da cui fuggire per cercare sé stessi, per capirsi ed esplorarsi. È la causa di tante insoddisfazioni nell’uomo.
Grazie Dario per essere stato con noi.
Grazie a te!