Pelé, storia e caduta del re del pallone
(Di Vito Galasso) «Sono stato chiamato Edson, in onore di Thomas Edison, perché quando sono nato l’elettricità era stata appena introdotta nella mia città in Brasile». Quel nome un po’ storpiato dall’ufficio anagrafe di Três Corações il 23 ottobre 1940 lo lega a colui che viene accreditato come il cervello dietro le invenzioni della cinepresa, del fonografo e delle prime versioni della lampadina. Lui che di elettrizzante aveva la velocità è Edson Arantes do Nascimento, per tutti semplicemente Pelé. Un nomignolo breve, facilmente proferibile in qualsiasi lingua, che è frutto di un difetto di pronuncia del brasiliano, il quale era solito chiamare il portiere del Vasco da Gama Pilé invece di Bilé. Due buoni piedi, stratosferico nel gioco aereo, pur non essendo un gigante, rapido, tecnico, potente, agile. Senza difetti. La sua forza al servizio della bellezza del gioco supera i limiti di ogni logica a tal punto da essere definito il più grande calciatore di tutti i tempi: Maradona, Cruijff, Cristiano Ronaldo e Messi sono tutti suoi “figli”. Fra i tanti talenti del pallone spunta nell’immaginario collettivo una scala gerarchica presieduta dal numero 10 carioca. Fosse solo per aver vinto tre Mondiali – l’unico calciatore a centrarli – e aver registrato un record di 1.281 gol in 1.363 partite per club e nazionale (761 su 821 gare ufficiali). Di questi risultano 6 cinquine, 30 poker e 92 triplette. L’asso brasiliano è nominato atleta del secolo dal cio, giocatore del xx secolo dalla fifa insieme a Maradona, miglior giocatore ai Mondiali nel 1970 e Pallone d’oro d’onore fifa nel 2013.
Parte dal basso, con l’umiltà che l’ha sempre contraddistinto, giocando a calcio per le strade di Bauru, a San Paolo, con una palla di fortuna ottenuta con un calzino ingegnosamente arrotolato. Ha solo sedici anni quando arriva al Santos come promessa di Waldemar de Brito, che lo indica come futuro miglior giocatore al mondo. Una profezia. Al suo arrivo al club, fa la sua prima apparizione per la squadra professionistica il 7 settembre 1956, contro il Corinthians de Santo André, segnando un gol nel 7-1 finale. Un anno dopo è già titolare e capocannoniere del Campionato Paulista, il più giovane fino ad oggi, con 36 gol. Pelé gioca per la maggior parte della sua carriera nel club del Peixe, dal 1956 al 1974, periodo durante il quale conquista dieci titoli statali e sei campionati nazionali, oltre a due Coppe Libertadores e altrettante Coppe Intercontinentali, nel 1962 e nel 1963. Il 7 luglio 1957 apre il suo conto con la nazionale del Brasile, nientemeno contro l’Argentina, conquistando la fiducia del Commissario Tecnico Sylvio Pirillo: la Copa Roca al Maracanà, l’amichevole organizzata per raccogliere fondi per il nuovo stadio del San Paolo, viene vinta dall’albiceleste ma il funambolo diciassettenne si mette in mostra siglando l’unica rete del 2-1 finale. La sua stella comincia a brillare e tre giorni dopo è protagonista di un’altra marcatura nel rematch al Pacaembú. Non è tutto perché Vicente Feola lo chiama per il Mondiale del 1958 in Svezia, escludendo un nome importante come quello di Luizinho. In Scandinavia esordisce solonella terza partita del girone contro l’urss di Lev Yashin, ma è ai quarti di finale che si svela al mondo, segnando la rete decisiva che elimina lo scorbutico Galles e diventando il più giovane marcatore nella storia della competizione; non sazio, distrugge con una tripletta la linea Maginot della Francia in semifinale e rifila una doppietta in finale ai padroni di casa. Memorabile l’azione che parte dal limite dei sedici metri, dove riceve palla, la addomestica con il destro e con un sombrero la fa passare sulla testa dell’avversario Gustavsson, esplodendo in seguito una gran botta con il piede sinistro nell’angolino basso alla destra di Svensson. Nel giro di un amen diviene il più giovane di sempre ad alzare al cielo la coppa. Nella kermesse del 1962 in Cile segna un gol e sfodera un assist nella partita d’esordio dei verdeoro contro il Messico, nello stesso tempo si infortuna e sarà costretto a rimanere fuori per il resto del torneo, non ricevendo nemmeno la medaglia dei vincitori perché non aveva disputato la finale. Medaglia, però, che gli verrà consegnata molti anni più tardi dalla fifa. Nel 1970, questa volta in Messico, fa girare la testa a tutti, persino a Tarcisio Burgnich: «Prima della partita, mi sono detto: è in carne e ossa come me. Poi ho capito che mi sbagliavo», disse il difensore dell’Inter. Un gol alla Cecoslovacchia, due alla Romania e uno in finale proprio all’Italia, il 21 luglio, quando Pelé torreggia in area di rigore, più in alto addirittura dello spilungone friulano, e gira di testa il pallone in rete aprendo le danze alla goleada brasiliana. L’amore dei sudamericani per Pelé diventa un sentimento vero ed eterno, perché non dipende da alcuna condizione che trascende lo spazio temporale ed evita qualsiasi tipo di etichetta. Non a caso gli è letteralmente impedito di trasferirsi all’estero durante il suo periodo di massimo splendore. Il Santos rifiuta tutte le offerte di club come Real Madrid, Inter e Milan, in un momento in cui i giocatori avevano poca influenza su dove giocavano. Le pressioni per trattenerlo in Brasile arrivano anche dai più alti livelli di governo: nel 1961, l’allora presidente Jânio Quadros emana un decreto che dichiara Pelé un “tesoro nazionale non esportabile”. La leggenda brasiliana finisce per giocare in un club straniero, ma solo al crepuscolo della carriera, nel 1975, quando si trasferisce per un biennio al New York Cosmos, negli Stati Uniti. Venti anni di attività agonistica in cui ricopre una sola volta il ruolo di capitano, partecipando a un’amichevole tra Brasile e Resto del Mondo, a Milano, organizzata in occasione del suo cinquantesimo compleanno. La sua fama si estende ben oltre i campi di calcio e rimane intatta anche dopo il ritiro. Diventa ambasciatore delle Nazioni Unite per l’ecologia e l’ambiente, ambasciatore per il calcio della fifa, ambasciatore di buona volontà dell’Unesco e persino ministro dello sport del suo paese, dove introduce una legislazione anticorruzione che porta maggiore trasparenza e responsabilità alle istituzioni calcistiche brasiliane notoriamente opache. Oltre alla politica, il suo volto viene affiancato a quello di famose campagne pubblicitarie, sebbene si rifiuti di promuovere prodotti alcolici e tabacchi, e si distingue in azioni sociali come la lotta alla droga e al razzismo.
Si cimenta nella recitazione, apparendo in film come Fuga per la vittoria (1981), e Mike Bassett: England Manager (2001), e nella musica cantando per il documentario del 1977 dedicato alla sua vita, pubblicando un album Pelé Ginga in cui duetta con star della musica brasiliana come Gilberto Gil e Elis Regina, registrando la canzone Esperança in occasione delle Olimpiadi di Rio de Janeiro e collaborando con Rodrigo Sánchez e Gabriela Quintero per il brano Acredita No Véio (Ascolta il vecchio). Per non contare tutti i testi in cui viene citato – sarebbero oltre cento – e il più famoso in Italia è Giulio Cesare di Antonello Venditti, che nel refrain cita: «Era l’anno dei Mondiali quelli del sessantasei / La regina d’Inghilterra era Pelé».
Pure uno degli artisti contemporanei più riconosciuti di tutti i tempi, Andy Warhol, decide di immortalarlo con la sua Polaroid con un pallone in mano, la maglietta del New York Cosmos e un sorriso smagliante. Oltre ai ritratti, Warhol produce serigrafie a colori basate su questa sessione fotografica, che sono vendute per milioni di dollari. I murales raccontano la sua storia sui muri di San Paolo e una statua nella sua Bauru pare abbia effetti taumaturgici.
La sua notorietà lo spingerà sì verso altri campi e parallelamente a una movimentata vita personale, costellata da tre matrimoni e sette figli (riconosciuti). È proprio la figlia Kely Nascimento annuncia il 29 dicembre la morte del padre, consumato da un brutto male, con un commovente post scritto su Instagram: «Tutto ciò che siamo è grazie a te. Ti amiamo infinitamente». O Rey è caduto, non c’è più, di lui restano echi di ricordi nelle imbricazioni tra il reale di chi l’ha vissuto e l’immaginario di chi si è limitato a visualizzare foto sbiadite o filmini datati. Restano le gesta di un giocatore fine e atletico, che anticipava come nessun altro il gioco avversario e osava compiere tecnicismi allora poco praticati o sconosciuti, spietato cannoniere in area di rigore e un diavolo della Tazmania nei movimenti. Tutti gesti compiuti con una spigliatezza che nessuno ha mai potuto avvicinare.
O Rey è morto, viva O Rey!