Taranto: Gli spareggi di Napoli e l’addio (obbligato) di Maiellaro
DI VITTORIO GALIGANI La squadra, allestita con competenza dalla “buonanima” (Tom Rosati) aveva vinto il campionato di serie C. Tom minato da una male incurabile era stato costretto ad abbandonare lasciando il testimone a Mimmo Renna. In B i Taranto stava stentando. Alla fine del girone di andata aveva raggranellato soltanto 11 punti ed era all’ultimo posto in classifica. A fine gennaio, pochi giorni prima del mio insediamento, Nando Veneranda, tempra forte e carattere di ferro, aveva sostituito Renna sulla panchina rossoblu. Il presidente era Vito Fasano, un uomo estroverso, duttile, simpaticamente pazzoide. Scaricava le tensioni giornaliere montando cavalli murgesi, in sfrenate galoppate sul litorale ionico. Non voleva sentir parlare di retrocessone. Al suo fianco, con funzioni di vice, Nico Bruni. Un fine tessitore che faceva da collante a tutta la situazione. In breve aveva compreso il mondo del calcio. Sapeva intuire le situazioni. Sapeva come evitare gli spifferi e le correnti pericolose dei corridoi del “palazzo”. Questo era il Taranto F.C. della stagione sportiva 86/87, Serie B, alla prima giornata del girone di ritorno. Quel girone di ritorno in cui lo “zar” Pietro (Maiellaro) confezionò assist d’autore. Pietro dipinse punizioni “deliziose” e imprendibili che tolsero ragnatele dall’incrocio delle porte avversarie. In quel girone di ritorno Totò Devitis, con la destrezza di un bucaniere, fece razzia nelle aree avversarie. Dove Paolucci, con le sue serpentine, ubriacò gli avversari. Dove il “pelato” Marco Serra, Rosario Biondo e Sergio Paolinelli ringhiarono sui garretti di quanti osavano avvicinarsi alla nostra area di rigore. E poi la sostanza messa in campo da tutti gli altri. Da Donatelli a Picci, Rocca, Dalla Costa, Goletti, Russo e Gridelli. Era un gruppo umile e compatto, con un solo obbiettivo: la salvezza. Nella serie B d’oggi quella squadra giocherebbe per la promozione in serie A.
Allora la vittoria regalava due punti. La promozione si otteneva tra i 50 ed i 52. Il campionato era a venti squadre. Dopo diciotto giornate, di quel girone di ritorno, avevamo conquistato 24 punti. Una rincorsa alla salvezza a ritmo promozione. All’ultima di campionato dobbiamo affrontare il Genoa. Noi per la permanenza. Loro per la promozione. Entrambe per un solo risultato: la vittoria. Si sarebbe dovuto giocare allo Iacovone. Il mercoledì arriva una doccia “gelata”. Lo stadio della Salinella, già diffidato, viene squalificato. Si giocherà in campo neutro. Sede prescelta lo stadio di Via del Mare a Lecce. Nelle ore antecedenti la partita arriva una scarica di adrenalina inverosimile. Creata da mille e più tifosi a manifestare, il loro fragoroso sostegno, sotto le finestre dell’hotel che ci ospita. Allo stadio, Nando Veneranda, Totò e lo Zar fanno il miracolo. Risultato finale 3 a zero per noi, con Maiellaro e De Vitis goleador.
Il Taranto sarebbe già salvo se a Bari la Sambenedettese non avesse inaspettatamente vinto largo e … “stranamente”, sui “galletti”. Nel dopo partita, nel leggere la classifica, non sappiamo se piangere o gioire. Siamo quart’ultimi, a pari punti con la Lazio e il Campobasso. Si deve andare agli spareggi per la salvezza. Inaudito per una squadra che ha collezionato 33 punti dei quali 22 nel girone di ritorno. La Lega decide che si gioca a Napoli. Lo stadio San Paolo è senza dubbio il più idoneo. Per regolamento se ne salvano due su tre. Esce il calendario. La prima, per noi, è proibitiva. Ci mette subito di fronte alla Lazio, allenata da “Neno” Fascetti che, partita penalizzata di 9 punti, ha recuperato e schiera uno dei migliori organici del campionato. Dopo quattro giorni affronteremo il Campobasso. I molisani, nel girone di ritorno, hanno sofferto pene da morire, perdendo anche in casa nostra. Taranto intera si stringe attorno alla nostra squadra. Si organizza l’esodo su Napoli. Con auto private, in treno ed in pullman. I tifosi napoletani, in gemellaggio, riservano, ai nostri, la loro curva. Alberto Piccenna, il mai dimenticato, prezioso e insostituibile collaboratore di allora, prepara il ritiro in un albergo sui dolci pendii che sovrastano il golfo di Napoli.
Una vigilia fatta di tensione. Veneranda pari a un cane ringhioso che bracca la sua preda. Teso, sempre, più delle corde di un violino. Finalmente, alle 17 e trenta del 27 giugno, Taranto e Lazio, agli ordini di Tullio Lanese, sbucano dal sottopassaggio del San Paolo. Non meno di 15 mila i tarantini che, al seguito della squadra, occupano la curva sud. Un colpo d’occhio stupendo. Da far intimorire anche i blasonati avversari. Manca lo “Zar” Pietro (Maiellaro) che, dopo il gol segnato al Genoa, si era sfilato la maglia per andare a esultare sotto la curva. Rimediando la squalifica per somma di ammonizioni. La gara è equilibrata. Sino al sessantacinquesimo. Accade tutto in un attimo. Toto Devits, smarcato davanti alla porta della Lazio, beffa Terraneo e deposita in rete. Indisturbato. Uno a zero per il Taranto. Laziali come statue di sale, in campo e sugli spalti. Devitis, in una corsa sfrenata, si fa tutto campo per farsi “abbracciare” dall’entusiasmo incontenibile dei nostri tifosi. Il risultato non cambia sino al triplice fischio finale. Segna primo passo verso la salvezza. Il giorno successivo, sul Corriere dello Sport, scriverà Giuseppe Pistilli: “la superiore freschezza atletica e mentale ha costituito l’arma decisiva della squadra pugliese, peraltro saggiamente disposta da Veneranda. Oltre a Paolucci, scintillante protagonista di questo primo spareggio, sono piaciuti Rocca, Devitis ed il laborioso Picci, ma tutta la squadra di Veneranda va elogiata in blocco per l’ardore, l’entusiasmo e la concentrazione con cui ha affrontato la sfida”. Nando, anche lui squalificato, aveva assistito accanto a me alla partita. Io, munito di ricetrasmittente (allora non esistevano i telefoni cellulari), mi collegavo, su indicazione del nostro allenatore, con Mario Biondi in panchina. Dettavamo le indicazioni tattiche. Risultò determinante la lettura della partita data dal nostro allenatore.
La squadra rimase in ritiro a Napoli. Lontano dai facili entusiasmi. Fu in quei giorni che compresi quanto fosse importante, per i tarantini, la propria squadra di calcio. Era il primo di luglio, quando affrontammo il Campobasso. Nel primo tempo, un giovanissimo Luca Evangelisti, schierato a centrocampo dai molisani, mise a dura prova le nostre coronarie. Con una gran botta dai 25 metri beffò Goletti. Andammo in svantaggio. Si riapriva il baratro della retrocessione. Ma, puntuale, ci fu la reazione. Forte, generosa, dirompente. Mancavano nove minuti al termine quando l’arbitro assegnò una punizione a nostro favore. Cinque metri fuori dall’area di rigore del Campobasso. Sergio Paolinelli, lo specialista, si appropriò della sfera. Quella era la sua mattonella. Dalla curva dei nostri tifosi lo accompagnò, fragoroso, il coro di incitamento che gli veniva usualmente dedicato: “Sergio, Sergio, Sergio…tira la bomba…tira la bomba…”. E bomba fu! Il pallone, calciato con rara potenza, si infilò, rasoterra. Tra il palo e le mani del portiere avversario, vanamente proteso in un inutile tentativo di deviazione. Nel vedere la rete che si gonfiava non capimmo più nulla e fu un generale rigurgito di entusiasmo. Di abbracci, commozione e lacrime di gioia. Era la liberazione da un incubo. Tutta la squadra andò sotto la curva sud impazzita ed esultante. Un abbraccio simbolico con tutti i nostri tifosi. Fu la prima e unica volta che notai l’ingegner Fasano, seduto alle mie spalle, preso dall’ emozione. Il rientro fu entusiasmante. L’autostrada fino a Taranto, l’intera città, erano un tripudio di stendardi e bandiere rossoblu. Due giorni dopo, una marea di tifosi ci aspettò festante in piazza Garibaldi per renderci omaggio. Eravamo, per tutti, gli eroi di una impresa sportiva bella e impossibile. Nessuno, pochi mesi prima, ci avrebbe scommesso. Mai il calcio mi aveva regalato emozioni, tanto forti e genuine.
Passarono sette giorni. A Milanofiori era iniziata la campagna trasferimenti estiva. Si erano manifestati, nel frattempo, seri problemi di natura finanziaria. Bisognava risolverli nell’immediatezza. Era in discussione la continuità della vita del club. Si rischiava il fallimento. Maiellaro era il pezzo pregiato del mercato. Lo volevano tutti. L’imperativo della proprietà era cederlo. Stavo trattando con il senatore Viola il suo passaggio alla Roma. Sul filo di lana si intromise il Bari con un’offerta irrinunciabile, tradotta in di miliardi di lire. Lo “zar” tanto amato e osannato dalla piazza, passò al “nemico” dichiarato di sempre. Quel trasferimento risanava le casse del Taranto. Potevamo pensare al futuro. I tifosi non vollero e non seppero comprendere. Gli stessi che alcuni giorni prima erano venuti a osannarci in piazza Garibaldi salirono, imbestialiti, in sede. Al primo piano del grattacielo, sul lungomare di viale Virgilio. “Distrussero” tutto. Era l’estate del 1987. Segnò l’inizio di un’altra avventura.